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Un buco nero nella forza lavoro

di Alessandro Rosina e Mirko Altimari
Gennaio 2020

PRIMA PARTE


La forza debole dei Millennials nel mercato italiano

L’Italia sta entrando in una nuova fase della sua storia che corrisponde ad un inedito impoverimento della forza lavoro nelle età più attive e produttive. Ma sta anche facendo molto meno del resto d’Europa per rafforzare la presenza qualificata delle generazioni che si apprestano ad entrare nel pieno della vita adulta attiva del Paese.

In particolare, gli attuali 30-34enni italiani (i Millennials) sono oltre un milione in meno rispetto ai 40-44enni. Per la combinazione tra riduzione demografica e deboli percorsi professionali, nei prossimi dieci anni l’Italia rischia di perdere un lavoratore su cinque all’interno del motore trainante della crescita. Si tratta di una riduzione senza precedenti, maggiore che nel resto d’Europa e con potenziali conseguenze di lunga durata. 

Questo indebolimento della componente più strategica dello sviluppo del paese si combina con l’aumento della popolazione anziana nelle età tradizionalmente inattive.

Se non si gestisce con approccio nuovo e strumenti efficaci questa trasformazione, il rischio è quello di un avvitamento verso il basso delle possibilità di sviluppo, di competitività, di produzione di ricchezza, di sostenibilità del sistema sociale.

Non si tratta meramente di quantificare quante persone in meno avremo come forza lavoro nei prossimi dieci anni, ma di capire quali dinamiche attendersi nel mercato del lavoro (e nel sistema produttivo) seguendo la storia, le potenzialità e le fragilità delle generazioni che si avvicendano, in coerenza con le grandi trasformazioni in atto e le specificità del paese.

Il report si chiude con tre nodi da sciogliere e due scenari opposti, con quello peggiore destinato a realizzarsi se non si interviene su tali nodi, condannando il Paese ad un declino irreversibile.

Verso un crollo della popolazione al centro della vita attiva

Il processo più noto e trattato nel dibattito pubblico italiano è quello dell’aumento della popolazione anziana, conseguenza dell’allungamento dell’aspettativa di vita e accentuato dall’impatto dell’uscita dall’età adulta attiva dei Boomers, la generazione demograficamente più consistente del secondo dopoguerra.
Ma ancor più caratterizza l’Italia (con impatto cruciale per la crescita e il benessere futuro) la diminuzione della popolazione in età centrale attiva. Si tratta di un processo del tutto inedito, conseguenza della progressiva entrata nella vita adulta dei Millennials, la generazione nata durante il crollo della natalità italiana.

In particolare coloro che hanno tra i 30 e i 34 anni fanno pienamente parte di tale generazione (ne sono il nucleo centrale) e sono meno di 3,5 milioni, contro oltre 4,5 milioni di persone nella fascia 40-44 (si sale quasi a 5 milioni nella classe 50-54).
In sintesi, veniamo quindi da una fase della storia del paese nella quale l’aumento della popolazione anziana è stato sorretto da una presenza solida di popolazione nell’asse portante dell’età attiva.

Quella in cui ora stiamo entrando è invece una fase in cui la popolazione anziana continuerà ancor più ad aumentare ma nel contempo le classi centrali lavorative andranno progressivamente a indebolirsi come mai in passato. Tutto questo avverrà più in Italia che altrove in Europa perché, a parità di longevità (sui livelli dei paesi più avanzati), il crollo delle nascite è stato da noi più rilevante e continua a caratterizzarci (anzi si è accentuato negli ultimi anni).

L’Unione europea (Ue-28) presenta infatti nel complesso una riduzione del 7% dei 30-34enni (giovani-adulti) rispetto ai 40-44enni (classe all’apice della vita attiva), contro il 26% in Italia. La Germania ha subito una riduzione simile nel recente passato a cui ha compensato con alti livelli di occupazione per le nuove generazioni. Francia e Regno Unito presentano squilibri analoghi o inferiori alla media europea.

I Millennials italiani fanno quindi parte della generazione che si troverà con il maggior carico di anziani inattivi da sostenere quando arriverà, a breve termine, al centro della vita attiva del paese. Gli squilibri demografici anziché compensati da una maggior occupazione risultano invece accentuati da un deterioramento delle condizioni delle nuove generazioni, che emerge anche in ottica comparativa con le altre economie avanzate.

Una occupazione che non decolla

L’attuale tasso di occupazione, sia maschile che femminile, tocca il valore più elevato nella fascia 40-44. Se, usando i dati comparativi Eurostat più aggiornati (riferiti al 2017, ma poco cambia nel 2018 per l’Italia) tale tasso risulta in Italia pari al 73,4 percento (84,4 per gli uomini e 62,4 per le donne). Il dato medio europeo è 82,1% (88,0% per gli uomini e 76,1 per le donne), quasi simile il valore in Francia (82,9%) e si sale a 86,1% in Germania.
In valore assoluto gli occupati in Italia sono circa 3,4 milioni in età 40-44 anni.

Fra 10 anni arriveranno ad avere tale età il peso debole dei trentenni si sposterà all’apice della vita lavorativa. Per l’Europa in generale questo comporterà una leggera contrazione, ma per l’Italia si tratterà di un contraccolpo rilevante e inedito da gestire con attenzione. Il rischio è infatti quello di indebolire il pilastro produttivo del paese per una combinazione di basso peso demografico (sono di meno) e bassa partecipazione effettiva al mercato del lavoro (presentano una storia occupazionale meno solida). I dati disponibili evidenziano in modo chiaro questo rischio.

Dal punto di vista demografico:
Nel nostro paese gli attuali 30-34enni sono 1,2 milioni in meno rispetto agli attuali 40-44enni (i primi sono poco sotto i 3,5 milioni contro circa 4,7 milioni dei secondi).

In termini di partecipazione lavorativa:
il tasso di occupazione degli attuali 30-34enni è sensibilmente inferiore sia rispetto al tasso occupazionale dei coetanei europei (67,9% contro 79,1% Eu-28), sia al tasso occupazione che avevano i 30-34enni di dieci anni fa (gli attuali 40-44enni) pari a 74,8%.

Figura A2 – Tasso di occupazione nella fascia 30-34 anni. Anno 2017. Paesi europei

Figura A3 – Tasso di occupazione nella fascia 40-44 anni. Anno 2017. Paesi europei

In assenza di politiche di rafforzamento demografico e potenziamento del tasso di occupazione (portandolo su livelli però che non hanno precedenti in Italia) è molto verosimile che nei prossimi dieci anni possa ridursi drasticamente il numero di persone nella fascia di età più rilevante per i processi di crescita del paese.

Meno lavoratori nelle età più produttive

Alcune simulazioni possono essere d’aiuto per chiarire l’entità della contrazione.
Il dato chiave per la costruzione delle simulazioni è il tasso di occupazione che avranno gli attuali 30-34enni tra dieci anni (ovvero quando avranno 40-44 anni), da cui ottenere poi il numero atteso di occupati (da confrontare con gli attuali occupati tra i 40 e i 44 anni che risultano attualmente essere oltre 3,4 milioni).

SCENARIO 0

È lo scenario meno favorevole. Ipotizza che tra 10 anni le persone di 40-44 anni coincideranno con gli attuali 30-34enni (quindi saldo migratorio netto nullo) e che anche il tasso di occupazione rimanga quello degli attuali 30-34enni. Questo ultima ipotesi non è per nulla arbitraria se si pensa che anche l’occupazione degli attuali 40-44enni (73,4% nel 2017) è simile, anzi un po’ più bassa rispetto a quella che avevano essi stessi a 30-34 anni (pari a 74,8%, misurata 10 anni prima, ovvero nel 2007).

Con queste ipotesi a distanza di dieci anni (nel 2027) gli occupati risulterebbero pari a 2 milioni 350 mila circa.

Il che significa un milione di occupati in meno rispetto a oggi nella sola classe 40-44, che corrisponde a un crollo di oltre il 30% in quella che può essere considerata la forza motrice del paese.

SCENARIO 1

In questo scenario, decisamente più positivo del precedente, si ipotizza che tra 10 anni i 40-44enni saranno pari al numero previsto dall’Istat (scenario mediano, che grazie all’immigrazione irrobustisce un po’ gli attuali 30-34enni facendoli lievitare a circa 3 milioni e 600 mila). Inoltre si assume che il tasso di occupazione passi da 67,8% attuale a 76,3% (che corrisponde al tasso di occupazione in età 40-44 anni prima della crisi, nel 2007).

In tal caso il numero di occupati diventa pari a circa 2 milioni e 750 mila, che corrisponde ad un crollo attorno al 20% (ovvero si perde, quindi, 1 lavoratore 40-44enne su 5).

SCENARIO 2

Ci possiamo infine chiedere a quanto dovrebbe arrivare il tasso di occupazione per mantenere costante nei prossimi dieci anni il numero di occupati nella fascia centrale lavorativa. Si ottiene un valore non impossibile ma molto inverosimile, pari al 95%. Ovvero solo portando gli attuali 30-34enni in condizione, di fatto, di piena occupazione l’Italia può evitare la riduzione del numero di occupati nelle età più produttive (mantenendolo su 3,4 milioni).

Va in ogni caso considerato che la popolazione anziana continuerà ad aumentare. Quindi anche in uno scenario di questo tipo il rapporto tra anziani inattivi e occupati tenderebbe a peggiorare.

Figura 1 – Occupati nelle classi 30-34 e 40-44. Scenari al 2027.

Nota: allo Scenario 0 corrisponde un tasso di occupazione della classe 40-44 nel 2027 della fascia attorno al 67,9%, allo Scenario 1 attorno al 76,3%, allo Scenario 3 attorno al 95,0%.

Questi dati evidenziano come le possibilità di crescita economica (di produzione di benessere più generale, compresa la sostenibilità del sistema sociale) siamo messe a rischio, in modo sensibilmente maggiore che in passato, dalla riduzione demografica della popolazione in età centrale lavorativa e dagli attuali bassi tassi di occupazione della generazione che sta entrando in tale fase della vita. Tutto questo in un paese che mostra da tempo bassa capacità di crescita, bassa competitività internazionale, bassa produttività, alto debito pubblico.

La trappola del basso investimento qualitativo sulle nuove generazioni

La forza potenziale da immettere nelle età centrali lavorative non solo quindi si riduce dal punto di vista quantitativo, più che nel resto d’Europa, ma presenta anche un indebolimento qualitativo più accentuato. A testimoniarlo sono i dati su: i Neet (giovani che non studiano e non lavorano); il titolo di studio; l’occupazione dei laureati.

L’Italia presenta, assieme alla Grecia, il peggior dato in Europa di Neet “maturi” (non più giovani, over 30). L’incidenza nella classe 30-34 anni è pari al 29,1 percento (dato comparativo più recente disponibile riferito al 2017), contro il 18,1% della Ue (con la Germania che ha un valore dimezzato rispetto a quello italiano, pari al 14,1%).

Oltre ad avere meno trentenni rispetto al resto d’Europa, più bassa è anche la qualità della loro formazione, in particolare più bassa è l’incidenza di laureati. Sono poco più di uno su cinque nella fascia 30-34 e anche questo è uno dei valori più bassi in Europa (il 26,9% nel 2017 contro il 39,9% della media Ue). Il capitale umano è cruciale nei processi di innovazione, parte essenziale di un circolo virtuoso che sposta verso l’alto qualità del lavoro (nuova occupazione per lavoratori qualificati) e competitività delle imprese (imprese aperte all’innovazione che espandono il mercato).

Nonostante i trentenni laureati siano quindi una risorsa scarsa rispetto agli altri paesi avanzati, sono da noi anche meno valorizzati nel mercato del lavoro. Il tasso di occupazione in età 30-34 dei laureati italiani risulta tra i peggiori in Europa (migliore solo della Grecia), pari a 77,3% contro l’87,1% medio Ue (e 89,3% per la Germania).

Dove sono i Millennials over 30 che non risultano occupati? Oltre a chi cerca attivamente lavoro e non lo trova (per basse competenze e/o per inefficienza delle politiche attive del lavoro) e a chi è inattivo (per difficoltà di conciliazione tra lavoro e famiglia sul lato femminile o perché demotivato), è senz’altro vero che c’è una parte che si arrangia all’interno del lavoro sommerso. Ma nessuna di tali tre condizioni può essere considerata rassicurante rispetto alla costruzione di un futuro solido per tale generazione e per un suo pieno contributo nei processi di sviluppo e produzione di benessere del Paese.

La preoccupazione è fatta propria dalle nuove generazioni italiane stesse. Secondo una indagine dell’Osservatorio giovani dell’Istituto Toniolo condotta sui giovani di età 20-34 anni, oltre uno su quattro (25,5%) teme di arrivare a 45 anni senza lavoro, contro circa il 10 percento dei coetanei tedeschi (10,7%).

Ma quello che colpisce è che tale timore aumenta sensibilmente con l’età, arrivando ad oltre uno su tre tra i 30-34enni.

Quando avrai 45 anni pensi che avrai un lavoro?

Percentuale di chi ha risposto di ritenere più probabile che non avrà il lavoro rispetto ad averlo. Per classe di età.

SECONDA PARTE


Specificità e limiti delle politiche attive italiane per il lavoro

L’ordinamento italiano presenta numerosi problemi in tema di politiche attive per il lavoro. La questione non è nuova e reca con sé molti retaggi di un passato… che non passa. Per decenni il “collocamento” è stato gestito in via esclusiva dallo Stato, attraverso un modello monopolistico. Il quadro normativo muta sensibilmente a partire dall’ultimo decennio del secolo scorso, anche sulla spinta del diritto dell’Unione europea: il datore di lavoro può assumere liberamente, mantenendo soltanto alcuni obblighi di comunicazione agli uffici pubblici e una parte sempre più consistente delle competenze in tema di politiche per il lavoro passa alle Regioni, dapprima per via amministrativa e successivamente dal punto di vista legislativo.

Il sistema dei servizi per il lavoro – vale a dire le strutture che “concretamente” erogano le politiche attive – è organizzato in una logica di cooperazione tra parte pubblica (Centri per l’impiego) e privata (Agenzie per il lavoro). Queste ultime sono l’insieme degli operatori autorizzati dal Ministero del lavoro iscritti in un apposito Albo.

All’interno di questo quadro, il legislatore è intervenuto nel 2015 con il Jobs Act prevedendo la nascita dell’Anpal, una agenzia nazionale che ha quale mission quella di coordinare la “Rete Nazionale dei servizi per le politiche del lavoro”.

La nuova normativa però si è dovuta confrontare, in concreto, con l’ipotesi di riforma costituzionale, la cui mancata approvazione ha determinato una impasse a livello di collaborazione politico istituzionale, nei rapporti tra Ministero del Lavoro, Anpal e soprattutto Regioni.

Se questo è il quadro giuridico che regolamenta le politiche attive per il lavoro, un ulteriore tassello per una maggiore comprensione dell’effettività delle stesse ci è dato da recenti report dell’Istituto nazionale di statistica, che segnalano le difficoltà di questo sistema nell’attuare uno dei suoi ruoli fondamentali, vale a dire l’incontro tra domanda e offerta in quel particolare “mercato” – che così definiamo per convenzione – che è quello del lavoro, senza mai dimenticare che il lavoro non è una merce, e che tale affermazione non è uno slogan sindacale bensì l’art. 1, lett. a) della Convenzione di Filadelfia del maggio 1944 sugli scopi e obiettivi dell’OIL (Organizzazione internazionale del lavoro), agenzia della Nazioni unite di cui quest’anno ricorre il centenario della fondazione.

Ebbene in Italia la ricerca di lavoro continua ad essere prevalentemente affidata a canali di natura informale: l’87,3% delle persone in cerca di occupazione non passa per i canali ufficiali. L’azione di intermediazione richiesta ai Centri pubblici per l’impiego risulta invece molto limitata. Nel 2017 vi si è rivolto in media soltanto un quarto delle persone in cerca di lavoro. Inoltre il ricorso al Cpi è stato ritenuto utile solamente dal 2,4 dei nuovi occupati e la percentuale cresce, ma non di molto, con riferimento alle agenzie private, ritenute utili soltanto dal 5,2% dei nuovi occupati per la ricerca dell’attuale lavoro.

Quali, dunque, le principali criticità?

Ci limitiamo a elencare in estrema sintesi
in tre punti aperti alla discussione:

1.

l’approccio amministrativo burocratico che ancora caratterizza l’operatività dei centri per l’impiego: evidentemente è tipica (e per certi aspetti, necessaria) modalità di azione della pubblica amministrazione, ma il disoccupato non deve essere considerato quale una pratica da evadere bensì un cittadino da accompagnare e supportare, anche nello sviluppo delle proprie competenze.

2.

il numero dei dipendenti dei Cpi è sicuramente molto basso, soprattutto se confrontato con quelli di altri paesi europei ; impietoso è anche il raffronto con il finanziamento dei servizi per l’impiego, che ormai in Italia hanno quale principale strumento il Fondo sociale europeo. Ma altrettanto urgente da affrontare è il tema delle competenze da sviluppare in gran parte degli operatori. Anche questa criticità si innesta sul più generale problema della p.a. in tema di innovazione: la quale va intesa non come un mero restyling dell’esistente ma una nuova via per fare cose nuove.

3.

infine un tema che solo apparentemente può essere ritenuto secondario (probabilmente lo è se si assume la logica burocratico-centrica) ma che in realtà appare centrale e ineludibile: le infrastrutture informatiche sono assolutamente insufficienti e spesso i diversi sistemi “non parlano” tra loro.

Il rischio da evitare è quello di lasciare il disoccupato da solo, o magari fare in modo che i suoi rapporti con i Cpi siano limitati alle pratiche burocratiche, necessarie per l’ottenimento di determinati benefici economici, in primo luogo l’indennità di disoccupazione (la cosiddetta Naspi).

Vista dunque la situazione descritta, l’investimento strategico in tema di politiche attive per il lavoro deve andare oltre il (pur imprescindibile) adeguamento delle stesse alla nuova misura del reddito di cittadinanza. Si tratta, in maniera più ambiziosa e ormai non più rinviabile, di ripensare l’intero assetto delle politiche attive, il loro ruolo e le strutture dei servizi offerti ai cittadini adeguandole a un mondo del lavoro che cambia a una velocità impensabile soltanto fino a pochi anni fa.

Si deve essere però ben consapevoli che il lavoro non è creato né dalla regola giuslavoristica né dai servizi per l’impiego. Ma questa innegabile constatazione non può significare una ritirata del pubblico dalle politiche del lavoro.

È necessario rinnovare la consapevolezza del ruolo delle politiche del lavoro e della loro centralità in un mercato complesso come quello attuale e ancora di più di più in un contesto come quello che si prospetta, in un futuro ormai non lontano.

Proprio per questo motivo è urgente e indispensabile invertire la rotta.

Gli esempi e le buone prassi da cui ispirarsi di certo non mancano, anche guardando ad altri paesi europei. Però la comparazione è sempre un esercizio difficile, poiché non è così scontato trasporre le norme e soprattutto le prassi che altrove funzionano e “calarle” nel contesto italiano.

TERZA PARTE


Specificità e limiti delle politiche attive italiane per il lavoro

Le sfide che già oggi si stanno giocando nel nostro mercato del lavoro necessitano di un approccio radicalmente diverso dal passato.

Dobbiamo pensare all’Italia non come a un paese nel quale manca il lavoro per i giovani, ma nel quale mancano giovani qualificati al lavoro, la risorsa chiave per produrre crescita innovativa e competitiva.

Cerchiamo di sintetizzare qui tre punti cruciali, tra loro interdipendenti, sui quali è necessario agire con urgenza e incisività per gestire positivamente e non subire negativamente le trasformazioni in corso (lasciamo per ora da parte il tema immigrazione, componente comunque inclusa nei dati presentati nella Parte prima e che in ogni caso verrà trattata in uno specifico OPP).

I limiti delle politiche attive del lavoro

Va prima di tutto urgentemente ridotto il disallineamento tra domanda e offerta di lavoro che porta oggi al paradosso di molti giovani e giovani-adulti che possiedono in larga parte le caratteristiche richieste sul mercato ma non trovano lavoro e, allo stesso tempo, molte aziende che faticano a coprire posizioni ben remunerate. Su tutto questo pesano i limiti richiamati sopra del sistema dei servizi per l’impiego. In carenza di sistemi esperti efficienti di orientamento e supporto negli snodi del percorso di vita e professionale, troppi giovani rischiano di perdersi e di portare nella vita adulta delusioni e frustrazioni anziché energie e competenze per realizzarsi e far crescere il paese.

Ci sono però anche molti over 30 (in particolare i Neet scoraggiati), che non hanno realizzato in modo solido il percorso di transizione scuola lavoro e che rischiano di scivolare in una condizione di esclusione sociale. Al di là del Reddito di cittadinanza, la vera sfida è quella di intercettare e riattivare tale categoria di trentenni.

Due scenari sono ora possibili.

SCENARIO POSITIVO

Quello positivo passa attraverso la capacità di accompagnare, con strumenti adeguati e avanzati, la maggioranza di tali trentenni in un percorso virtuoso di riqualificazione, ricerca attiva di lavoro e crescita professionale affiancata da formazione continua. Serve però, per favorire questo scenario, un piano credibile di breve e medio periodo con obiettivi chiari, misurabili e monitorati, in grado di aumentare ogni anno la sua efficacia autoapprendendo cosa funziona e cosa meno degli strumenti avviati.

SCENARIO NEGATIVO

In quello negativo gran parte degli attuali Neet trentenni (categoria di cui deteniamo il record in valore assoluto in Europa) si trovano senza più poter contare sull’aiuto dei genitori e diventano costo sociale al quale lo Stato offre una qualche assistenza in parte integrata da lavoretti saltuari e/o con attività nell’economia sommersa.

L’impatto delle trasformazioni tecnologiche

In un mondo che cambia a velocità impensabile rispetto al passato – dove i mutamenti avvenivano da una generazione alla successiva mentre oggi avvengono nel giro di pochi anni – il tema della formazione diventa davvero strategico: sia con riferimento a competenze avanzate (come quelle digitali) ma anche con riferimento a competenze trasversali e relazionali (come l’apprendere ad apprendere, la creatività, l’intraprendenza).

Le competenze da aggiornare e potenziare non riguardano solo i giovani, ma, a partire dall’entrata del mondo del lavoro, devono poi essere estese, rafforzate e aggiornate in tutte le fasi della vita.

È, pertanto, necessario e urgente incentivare e alimentare un processo all’interno delle stesse imprese (ancor più quelle medio-piccole), in cui domanda di competenze digitali e capacità di stare sul mercato entrino in un circuito virtuoso che spinge entrambe verso l’alto.

Non è certo nuova la questione della tecnologia che cancella tradizionali posti di lavoro. Anzi, è un tema che accompagna qualsivoglia modifica tecnica (dall’introduzione dei telai meccanici alla fine del 1700 distrutti dai luddisti ad oggi).

Ciò che fa la differenza rispetto all’uso di macchine e robot nel passato è l’inserimento del processo di produzione (o di azione perché vale anche per le attività della vita quotidiana) di un ecosistema intelligente che mette in relazione non più solo esseri umani e macchine, ma anche oggetti con oggetti e, in modo ibrido, con l’agire e il pensiero umano.

SCENARIO POSITIVO

Il primo è quello in cui il paese cresce mettendo in connessione positiva antropologia delle nuove generazioni e tecnologia avanzata nei processi di produzione e innovazione, compensando così la riduzione della forza lavoro con un aumento della produttività e creazione di nuova buona occupazione più che distruzione di vecchia occupazione.

SCENARIO NEGATIVO

Il secondo è quello di un paese che non cresce, che non espande settori strategici che servono a renderlo più competitivo (facendo leva sulle idee, il capitale umano, la ricchezza del fattore umano delle nuove generazioni), con conseguente basso rendimento della formazione e trasformazioni tecnologiche usate al ribasso per riduzione del costo del lavoro più che orientate a favorire nuova occupazione. In questo secondo scenario la riduzione della forza lavoro in combinazione con formazione fragile e scarsa valorizzazione del capitale umano favorisce un processo di basso sviluppo e alta sostituibilità uomo-macchina, il che a sua volta riduce le opportunità di lavoro in Italia (e incentiva la ricerca di migliori opportunità all’estero).

Andrebbe in tal caso ulteriormente ad accentuarsi il paradosso italiano di aver nuove generazioni demograficamente meno consistenti ma anche meno incluse e valorizzate all’interno dei processi di sviluppo del paese. Crescita competitiva dell’Italia (combinando tradizione e innovazione nei suoi settori più strategici) e inclusione piena e qualificata delle nuove generazioni nei processi di sviluppo del paese, vanno considerate due facce della stessa medaglia.

Le carenze della conciliazione
lavoro-famiglia

I Millennials si trovano in una fase cruciale e delicata non solo rispetto all’entrata piena nel mondo del lavoro e al consolidamento del proprio percorso professionale, ma anche rispetto alle scelte di vita e, in particolare, di formazione familiare.

Il nucleo centrale di tale generazioni passerà nei prossimi dieci anni, come abbiamo sottolineato, dai 30-34 anni ai 40-44 anni. Sta vivendo e mettendo quindi le basi di scelte che completeranno o lasceranno incompiuti i propri progetti di vita. La possibilità di armonizzare tali scelte con quelle professionali produce ricadute sia sul tasso di occupazione, sia sulla natalità, sia sul benessere materiale e relazionale familiare. Le carenze di strumenti di conciliazione (in particolare relativamente ai servizi per l’infanzia e al part-time reversibile, ma anche congedi di paternità che favoriscono un cambiamento culturale nella condivisione degli impegni di cura) hanno portato il nostro paese ad essere uno di quelli con peggior combinazione al ribasso tra occupazione femminile (pari a 49%, valore lontano dal target del 60% fissato dall’Agenda di Lisbona e raggiunto come media europea) e fecondità totale (pari 1,32 per donna, lontano dalla soglia di 2,1 che tiene in equilibrio il rapporto tra generazioni).

SCENARIO POSITIVO

Lo scenario alternativo è un forte investimento negli strumenti di conciliazione (in termini di servizi accessibili e clima culturale) con riscontro positivo immediato in termini di occupazione e quindi anche di sicurezza economica delle famiglie con figli, ma in prospettiva anche una riduzione degli squilibri demografici attraverso l’aumento della natalità.

SCENARIO NEGATIVO

Uno scenario plausibile è che su questo punto l’Italia continui a mostrare tutte le sue resistenze e contraddizioni, con conseguente riduzione ulteriore della natalità (accentuata dalla diminuzione quantitativa delle potenziali madri, le trentenni appunti) e freno al pieno contributo della componente femminile alla partecipazione al mercato del lavoro e allo sviluppo del paese. L’esito in tal caso è bassa crescita e ancor più squilibri demografici.

Se preferiamo il primo scenario non dobbiamo cambiare sostanzialmente nulla, se invece vogliamo andare nella direzione del secondo scenario è necessario innovare e potenziare gli strumenti in grado di consentire alle donne (e alle coppie in generale) di combinare al rialzo la presenta attiva nel mondo del lavoro e la realizzazione piena nei progetti familiari.

Figura A1 – Tasso di occupazione nelle fasce 25-34 e 35-49. Serie mensile 2017-2018